Una chiosa pubblicata nel 2015 a commento della massima di La Filosofia e i suoi Eroi (www.filosofico.net)
Nella magia e nella vita, c’è solo il momento presente. Non si misura il tempo come si calcola la distanza tra due punti. (Paulo Coelho)
Giancarlo Pallavicini Forse nella magia c’è solo il presente! Nella vita un po meno. Anche se è importante non condizionarci troppo con gli orari e vivere bene “l’attimo presente”, qualunque esso sia, non possiamo estraniarci del tutto dal passato, recente o remoto, che si attualizza nel presente, e dalla progettualità del futuro, propria dell’essere umano.
Per non parlare poi del concetto generale di tempo! Esso è funzionale al moto e all’energia termica (calore) ed è in rapporto stretto con lo spazio.
Se uno di due fratelli gemelli riuscisse a muoversi alla velocità della luce per andare sulla luna e tornare sulla terra in pochi secondi, al suo ritorno scoprirebbe che il suo gemello è morto e sepolto da qualche centinaio di anni. Il presente senza storia passata o slancio futuro può realizzarsi soltanto nell’assenza di moto e di calore, che è possibile solo alla temperatura dello zero assoluto: - 273,15.
Ma la conoscenza è in divenire e la recente scoperta di un infinitesimale abbassamento oltre lo zero assoluto, reso possibile per un nano-secondo da particolari tecniche, sembra aprire a nuove ipotesi legate ai buchi neri ed all’antimateria di cui si comporrebbe gran parte dell’Universo.
Tornando coi piedi per terra all’assunto in discussione, mi viene da pensare che per l’uomo d’oggi il passato diviene subito remoto, il presente sfugge e occorre forse intuire come sarà il futuro che avanza. E ciò, mantenendo nel presente che si vive quella consapevole e quieta attesa del divenire futuro, che è resa possibile anche dalla traslazione in avanti del nostro passato.
6 marzo 1986: alla conclusione del Congresso del Partito Comunista Sovietico, Gorbacev lancia la perestroika.
Il sistema sovietico fu la risposta alla necessità di controllare qualcosa come cento gruppi etnici, di cui solo sedici con una popolazione inferiore alle cinquemila unità. Si sta parlando di un “mostro” distribuito su un territorio immenso e formato da quasi 300 milioni di abitanti, appartenenti a etnie e nazionalità diversissime fra loro per usi, costumi, lingua, tradizioni culturali e religiose.
Si decise la via della “russificazione”, ossia fondere tutte le nazionalità in un corpo unico omogeneo, detto «Popolo sovietico», attraverso l’imposizione della cultura dominante a tutte le etnie della Nazione. Ad amministrarlo, uno Stato fortemente centralizzato dall’economia pianificata da piani quinquennali.
Un passaggio troppo repentino dall’Impero multietnico zarista al sistema centralizzato sovietico, venne però giudicato troppo pericoloso e quindi controproducente per lo Stato.
Per avviare una pacifica evoluzione verso la società comunista, Lenin decise di attuare il processo di “russificazione” per gradi, passando attraverso un periodo di transizione; nella Costituzione del 1924 venne quindi inserito una sorta di “contratto nazionale” con il quale il governo centrale si impegnava a rispettare i popoli che avevano accettato di aderire alla «libera Unione», garantendogli in ogni momento «il diritto di libera secessione dall’Urss».
All’arrivo di Stalin, finito il Primo Conflitto mondiale, quello civile e quello sul confine occidentale contro la Polonia, fu messa la parola fine alla fase di “indigenizzazione” voluta da Lenin e si diede il via al processo che portò all’organizzazione del sistema coercitivo sovietico vero e proprio.
Nonostante le contraddizioni e le infami purghe, la russificazione di Stalin ebbe successo e il problema delle nazionalità diventò marginale, una volta traghettato l’intero popolo nella nuova era.
Il raggiungimento della completa realizzazione del comunismo era il fine ultimo dello Stato sovietico. Il compito del PCUS fu quindi quello di esercitare il controllo dello Stato attraverso il controllo dell’economia, ma anche se la situazione sovietica rimase sostanzialmente la stessa fino agli anni ‘80, non poteva durare...
È opinione condivisa da quasi tutti gli economisti che senza il “mercato” qualsiasi ordine economico cessa di agire in maniera razionale. Questa deduzione è maturata soprattutto dallo studio del fallimento, sul lungo periodo, del sistema economico “pianificato” sovietico.
Quello che avvenne fu un graduale, ma inesorabile crollo dei livelli produttivi e, conseguentemente, del tenore di vita della popolazione. Con la produzione completamente in mano ai burocrati dello Stato, ogni cosa era decisa dalla politica in base a calcoli: le quantità dei beni da produrre e distribuire, la loro tipologia, la loro qualità, il loro prezzo; perfino il consumo era deciso dallo Stato: attraverso un sistema di tessere veniva stabilito quali cittadini avessero diritto a determinati beni e quali no. Il fallimento dell’economia pianificata, in un primo periodo di estrema importanza nel promuovere l’industrializzazione e l’aumento produttivo in un’economia sostanzialmente agricola e non capitalistica, nacque proprio dalla pretesa di determinare ogni aspetto del consumo e della produzione, insieme allo sforzo di sostenere un “apparato di guerra in tempo di pace”.
Nel contesto della guerra fredda Stalin capì che per poter trattare con gli Stati Uniti avrebbe dovuto poter disporre di una potenza di fuoco equivalente o superiore a quella dell’avversario. L’industria bellica diventò il settore privilegiato economicamente dal sistema sovietico e conobbe uno sviluppo rapidissimo. Questa politica, mantenuta da tutti i successori di Stalin, portò all’enorme dispendio di risorse verso gli armamenti (convenzionali e nucleari ) e alle spese militari in genere. Tutto questo, insieme all’estremo centralismo economico che sopprimeva ogni iniziativa, portò alla grande crisi dell’URSS, nonostante i successi iniziali sembrassero, anche se altelenanti, concreti fino agli anni Sessanta.
Ad accorgersi che qualcosa scricchiolasse fu Ovsij Liberman. L’economista sovietico si accorse dei problemi del sistema già negli anni '60. Avanzò alla dirigenza la proposta di concedere una maggiore autonomia alle imprese, permettendogli, per esempio, di fissare la produzione in funzione degli ordini ricevuti e non degli obiettivi fissati dal regime.
La sua proposta venne respinta quando i membri del Partito si accorsero che questa riforma avrebbe comportato una perdita del loro potere. Questa decisione ebbe l’effetto di accellerare il declino dell'URSS.
Il KGB, diretto da Jurij Andropov, alla fine degli anni '70 avviò uno studio riservato in cui il calcolo del PIL sovietico venne eseguito secondo i criteri qualitativi occidentali (cioè con l'integrazione del concetto di valore aggiunto, e non più solamente in base al numero di unità prodotte, come voleva la tradizione socialista). Il risultato fornì la prova definitiva di come economia pianificata, militarismo estremo e impostazione ideologico-totalitaria stesse conducendo l’Unione Sovietica verso il baratro.
Questo non bastò a mettere in discussione né il complesso militare-industriale, né il sistema pianificato sovietico, perché gli interessi della lobby militare-industriale e quelli dei funzionari, ingegneri, tecnici, operai specializzati… la cui condizione privilegiata era legata proprio al mantenimento delle status quo, riuscirono a frenare ogni tentativo di riforma.
Nessun dirigente o membro del PCUS pose mai alcun limite allo sviluppo del complesso militare-industriale, nè alla priorità accordatagli negli investimenti; l’apparato continuò ad opprimere con il suo peso lo sviluppo economico di qualsiasi altro settore dello Stato, trascinandosi per inerzia fino agli anni ‘80, l’epoca in cui gli effetti si fecero palpabili.
Alla morte di Konstantin Ustinovič Černenko (10 marzo 1985), diversamente da quanto accadde in passato, non si aprì nessuno scontro politico tra conservatori e riformatori, perché la classe dirigente aveva già da tempo pronto il successore: Michail Sergeevič Gorbačëv.
La dirigenza del PCUS, dopo anni di leader vecchi, deboli e spesso incolti, vista la crisi, decise di mettere al potere un rappresentante della nuova generazione. Il suo arrivo, accolto con favore dalla popolazione, dopo oltre un ventennio di gerontocrazia, rappresentò una specie di rottura con il passato. Il nuovo Segretario con i suoi 52 anni fu il leader del Pcus più giovane dai tempi di Lenin.
Gorbačëv era istruito, aveva una laurea da agronomo-economista e una in giurisprudenza, era in grado di parlare a braccio, senza leggere discorsi retorici scritti da altri, e abile a trattare gli ospiti stranieri.
Fu un puro prodotto del regime, i principi con cui avviò le sue politiche e le sue riforme erano largamente condivisi, all'inizio.
La sua politica di riforme socio-economiche non ebbe mai e in nessun modo l’intenzione di mettere in discussione i dogmi comunisti, ma puntava invece a consolidare il regime indebolito dall'immobilismo della gerontocrazia degli ultimi decenni, facendo leva sul rilancio dell'economia e sull'aumento della produttività. Il nuovo segretario generale del PCUS si sforzò di «razionalizzare il sistema sovietico, lasciandone intatte le principali organizzazioni e istituzioni». Vale a dire salvare il sistema attuando riforme strutturali molto profonde e in grado di portare il sistema sovietico "bloccato" a un’economia di libero mercato, ma senza creare eccessivi scombussolamenti e mantenendo pure un certo consenso popolare.
La celebre perestroika partì istituendo una commissione economica che si occupasse di attuare le nuove direttive.
Il ruolo di Presidente della Commissione per la riforma dell'economia fu affidato a Leonid Ivanovič Abalkin, docente di economia e già Primo Vice Primo Ministro del Governo.
Per la non facile impresa di traghettare un sistema economico centralizzato e da sempre sotto il controllo di uno Stato totalitario, totalmente privo di leggi e norme in materia, verso un'economia di "mercato" Leonid Ivanovič Abalkin chiamò a sè un consulente occidentale: l’economista italiano Giancarlo Pallavicini, all'epoca Vice Presidente dell'Associazione Internazionale degli Intellettuali di Mosca (passerà così alla storia come il primo consulente occidentale del governo sovietico ).
Nacquero cooperative, le imprese ottennero il diritto di vendere autonomamente i prodotti, fu riorganizzato il sistema bancario e quello dell’agricoltura... Per la prima volta dopo l'esperimento della Nuova Politica Economica di Lenin negli anni venti, in Unione Sovietica viene nuovamente consentito un certo grado di proprietà privata nelle imprese di commercio, produzione, servizi import export... e un'altra riforma importante fu quella che consentì al capitale straniero di investire in Unione Sovietica attraverso la costituzione di joint-venture.
Con la Glasnost (disgelo) furono introdotte le libertà di opinione, parola e di stampa, dando modo alle persone di esprimersi, senza più censure o repressioni, sull’operato della leadership politica.
Queste pur coraggiose riforme lasciarono comunque inalterati alcuni principi fondamentali dell'economia sovietica, come il sistema di controllo dei prezzi, l'esclusione della proprietà privata dalle grandi imprese e il monopolio dello stato sulla maggior parte dei mezzi di produzione.
Gorbacev inizialmente ebbe il sostegno di una piccola parte della borghesia di stato e, grazie ad un ormai decennale senso di malessere sociale, di una piccola parte delle classi operaia, contadina e conservatrice.
Contro ebbe quella parte di burocrati e impiegati di stato che con le privatizzazioni e con la "libera" imprenditoria avrebbe subito un duro colpo ai propri privilegi, mantenuti proprio in virtù della struttura sociale. Lo stesso apparato che in passato non permise le necessarie trasformazioni, per mantenere interessi e il potere, mal sopportando le nuove responsabilità, rallentò in ogni modo l’intero processo riformista.
Queste riforme avrebbero dovuto permettere il raggiungimento degli standard produttivi del mondo occidentale capitalistico attraverso la crescita tecnologica, il miglioramento della produttività e l’ incremento della qualità e della quantità del prodotto, invece quello che si verificò fu una forte contrazione nella produzione, sia industriale, sia agricola, che ridusse il reddito della grande maggioranza della popolazione.
Presto fu chiaro che per abbandonare la logica improduttiva che aveva dominato l’esperimento di economia pianificata con ipercentralizzazione, si sarebbe dovuto necessariamente by-passare l’organo in grado di bloccare ogni tentativo di svolta: il PCUS.
La "glasnost‟ servì anche a questo: Gorbacev sperò che, introducendo la libertà di espressione e di stampa, venendo a sapere della rete di privilegi e di corruzione dei membri del PCUS, la popolazione avrebbe appoggiato le sue riforme. Questa però si rivelò essere un'arma a doppio taglio. Una volta rivelate le malefatte della classe dirigente si verificarono moltissime proteste da parte di fasce di popolazione sempre più ampie, che fecero crollare la credibilità dello stato fornendo pure un’ulteriore spinta verso il crollo del sistema.
Anche il problema delle nazionalità non fu affrontato con la dovuta cautela: Gorbačëv, sottovalutando la pericolosità del populismo sfrenato, considerava spregevole, in un periodo di così grande crisi per l’URSS, dare soddisfazione agli interessi dei vari localismi. Questo, insieme alla politica di proibizionismo circa gli alcolici, fu uno dei più grandi errori del Segretario.
La frattura dell’equilibrio del meccanismo del consenso organizzato fu un altro colpo fatale. Con il crollo dei prezzi e della produzione del petrolio la situazione economica precipitò ulteriormente e ancora più velocemente. La crisi di sistema fece nascere divisioni interne al gruppo riformatore di Gorbačëv, principalmente con il gruppo capeggiato da Boris Eltsin.
La gestione dell’affare Eltsin fu un altro dei gravi errori politici compiuti dal leader sovietico. Boris Eltsin divenne, nella percezione pubblica, l’anti-Gorbačëv.
Fu visto come un riformatore radicale e feroce nemico dei privilegi e della corruzione del Partito, mentre Gorbacev, essendo comunque il Segretario del PCUS, fu identificato come simbolo di tutti gli errori, della corruzione e dei privilegi. Le cose andarono più o meno in questo modo:
il leader sovietico, per favorire una traslazione di potere dal Segretario generale del Partito Comunista in favore di un Presidente dell’URSS, istituì un nuovo sistema presidenziale e cercò anche di far divenire lo Stato sovietico uno Stato di diritto.Per fare ciò le funzioni del partito avrebbero dovuto essere trasmesse a organi statali legittimati dal voto popolare.
In un'ottica di ridimensionamento del potere del PCUS, Gorbacev pretese anche un forte snellimento del sistema, ma questa mossa, benchè inevitabile, alla lunga si dimostrò controproducente: riducendo i membri del partito, allontanando moltissimi funzionari, chiudendo molti uffici e enti, di fatto scatenò un effetto collaterale capace di mandare a picco l’intero sistema economico sovietico.
In pratica, eliminando gran parte di quegli organi amministrativi che si occupavano di determinare, controllare e far funzionare il sistema economico (già in pessime condizioni), fece saltare tutto.
Dalla fine del 1988 il problema dell’economia in Unione Sovietica divenne mese dopo mese sempre più grave. Si verificò una totale anarchia produttiva, ma i problemi economici, per quanto gravi fossero, non modificarono la linea politica adottata da Gorbačëv, ma alcune delle più importanti riforme non furono attuate per il timore che, insieme a proteste contro la perestrojka o alla nascita di umori fortemente conservatori, si potessero generare anche una serie di conflitti, potenzialmente in grado di sfociare in una guerra civile. In ogni stato c’erano proteste e i vari popoli chiedevano sempre maggiore autonomia economica.
Queste grandi proteste riuscirono a spostare gli equilibri.
Eltsin, cavalcandone l’onda, seppe raccogliere intorno a se tutti gli scontenti del sistema. Gorbačëv, invece, attaccando verbalmente i riformisti più radicali accusandoli di aver ostacolato ogni riforma da lui avviata, perse moltissimo consenso popolare.
Tutte le paure del partito trovarono conferma con le elezioni del marzo 1990, quando i vari popoli furono chiamati ad eleggere i delegati dei rispettivi Soviet nazionali. In Russia a vincere fu la Piattaforma Democratica (DemRossija) di Eltsin.
La prima mossa di Eltsin, nuovo Presidente, fu di svincolarsi dal Cremlino, in modo da avere lo spazio sufficiente per una manovra economica in grado di modificare la crisi economica, ribadendo lcontemporaneamente la sovranità dello Stato russo. Questo innescò una specie di reazione a catena: la dichiarazione di sovranità di Eltsin -giunta dopo quella estone, lettone, lituana e georgiana- aprì la strada a dichiarazioni simili da parte degli ucraini, moldavi, uzbeki…
Senza più un controllo esteso all’intero territorio nazionale si verificò il collasso completo dell’economia.
Gorbačëv, sempre a favore dello Stato unitario, per arginare il disastro propose un referendum, da attuare in ogni stato, che chiedesse al Popolo sovietico di scegliere per la sopravvivenza o meno dello Stato federale, sperando in risultato positivo che avrebbe costretto i diversi contropoteri nazionalistici a rispettare la decisione della popolazione.
Il risultato del referendum rivelò che la popolazione sovietica era favorevole alla sopravvivenza dell’URSS.
Gorbačëv interpretò questo esito come un mandato a rinnovare lo Stato federale, concedendo maggiore autonomia alle diverse entità che lo costituivano; lavorò quindi insieme ad Eltsin e con gli altri Presidenti delle diverse Repubbliche, alla realizzazione di un nuovo trattato dell’Unione Sovietica
Gorbačëv e Eltsin, messi da parte i dissapori per collaborare, vennero però travolti da qualcosa di inaspettato.
Le forze conservatrici, nell’agosto del ‘91, organizzarono un golpe per impedire l’entrata in vigore del nuovo assetto statale.
Tutti i responsabili del colpo di stato erano ex alleati del Segretario: rispettavano il leader sovietico, ne riconoscevano la necessità del riformismo specialmente riguardo allo scongelamento dei prezzi e all’introduzione di un vero ordine di mercato e ne avevano anche sostenuto l’azione in passato, ma essendo tutti fortemente contrari alla fine dell’URSS, decisero il colpo di Stato.
Il golpe fallì per alcuni errori compiuti dai cospiratori: il più grosso fu quello di non aver arrestato Eltsin.
Il Presidente russo riuscì a comunicare con il governo di Washington e, con l’aiuto del Generale Pavel Sergeevič Gračëv, a organizzare una difesa del palazzo del governo di Mosca.
Il tentativo di golpe durò pochi giorni (tra il 19 agosto e il 21 agosto), ma pur fallendo ebbe un effetto dirompente. I democratici di Eltsin, avendo conquistato un potere solido e legittimato, non ebbero più alcun interesse di accordarsi con Gorbačëv, ormai visto molto negativamente come il rappresentante di un’epoca passata, del governo sovietico e del vecchio Partito Comunista organizzatore del golpe.
Così mentre Gorbačëv fece da capro espiatorio,al suo posto si sollevò la figura di un “rinnovato” Boris Eltsin, molto apprezzato anche e soprattutto grazie alla condotta adottata nel contrastare l’insurrezione di agosto.
Il Partito comunista sovietico, ritenuto diretto responsabile di quanto era accaduto, fu sciolto e i suoi beni nazionalizzati. Poi Eltsin volse la sua attenzione alla situazione economica affrontando subito la questione relativa al mercato e alla liberalizzazione dei prezzi.
L’Unione Sovietica era ormai un sacco vuoto, ma Gorbačëv, nonostante tutto, volle ancora tentare di ricorrere a un referendum popolare. Gli Stati, dopo lunghi negoziati, raggiunsero un accordo su un trattato che creava una confederazione dotata di alcuni poteri propri di uno Stato federale. Il voto si tenne il primo dicembre. La Russia di Eltsin decise di subordinare la propria adesione al nuovo accordo alla eventuale ratifica del trattato da parte dell’Ucraina. Il voto in Ucraina non lasciò dubbi. Il 90 per cento dei votanti furono a favore di una completa e totale indipendenza. Senza l’adesione dell’Ucraina e della Russia, la nuova unione non ebbe più nè motivo, nè modo di nascere.
Una settimana dopo, l’8 dicembre, i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono una dichiarazione che attestava la fine dell’Unione Sovietica.
Lo scioglimento fu decretato in un incontro nella foresta di Belovezh, dai leader di Russia, Ucraina e Bielorussia: Borís Eltsin, Leonid Kravčuk e Stanislaŭ Šuškevič. Fu la fine di un’epoca.
Il 25 dicembre 1991 Michail Sergeevič Gorbačëv, l’uomo con la famosa voglia in testa, figlio di agricoltori nel villaggio di Privolnoye, che seppe scalare la piramide del potere sovietico fino al vertice, rassegnò le sue dimissioni da Capo dello Stato.
La sua politica, volta ad adeguare il socialismo sovietico all'evoluzione della società per dargli nuova ripresa, è vista con favore in occidente, per via degli effetti sulla distensione tra i rapporti tra Urss e Usa e tutte le conseguenze da essa provocate, come lo stop alla corsa agli armamenti, la fine dell’occupazione in Afghanistan e tutto il resto, al punto da fargli assegnare il Nobel per la pace. In patria è invece considerata un fallimento, e il suo promulgatore, uno dei Giganti del Novecento, è tutt’ora oggetto di forti critiche. La principale colpa attribuitagli è quella di aver accelerato lo sgretolamento dell'URSS attraverso l'istituzione della carica del presidente della repubblica sovietica, che portò al potere Boris Elltsin, il suo principale oppositore che accentuò l’influenza delle forze separatiste.
Iron Maiden Mother Russia:
Cinquant’anni fa si sentiva la gente cantare.
Cantava il falegname, il contadino, l’operaio,
quello che va in bicicletta, il panettiere.
Oggi hanno smesso.
La gente non canta e non racconta più.
- Mario Rigoni -
Condivido con Mario Rigoni Stern questa considerazione sul cantare di un tempo, come ho condivis, con lui e con Alberto Moravia, la fondazione di “Myr Cultura” in Russia all’avvio della “perestrojka” gorbaciovana. Tra le ragioni del cambiamento l’accelerazione dei ritmi della vita in generale ed il continuo sovrapporsi di nuovi motivi musicali, che scorrono come l’acqua sulla pelle, senza lasciare traccia. Nel tempo che fu le canzoni in voga, al pari di alcuni tradizionali brani d’opera, , erano talmente condivisi da caratterizzare persino l’habitat in cui si svolgevano le attività lavorative e lo stesso ambito familiare, con i suoi ritmi abituali, ma condivisi fra tutti, pur nella diversità dei ruoli. Forse, pure il canticchiare i motivi musicali condivisi contribuiva al comune senso di appartenenza. Comunque tempi diversi, da non dimenticare per chi li ha vissuti, ma senza che inducano a malinconiche reminiscenze. Semmai da considerare con occhi nuovi, per traslare nel futuro che avanza ciò che merita di essere mantenuto nel cammino verso un mondo che ci auguriamo migliore per tutti.
http://www.giancarlopallavicini.it/cultura/myr-cultura-in-italiahttp://www.giancarlopallavicini.it/russia/myr-cultura-in-russia