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by Giancarlo Pallavicini

Economia

LA CIVILTA’ DEL PANE

Università Cattolica del Sacro Cuore - Brescia, 1-6 Dicembre 2014

 

Expo Parlamento Europeo, Auditorium, 9 Maggio 2015

PANE: CIBO ELETTO E SIMBOLO DI CIVILTA’

GIANCARLO PALLAVICINI

Accademia delle Scienze della Federazione Russa, Mosca

 

Premessa

Per come sono collocate queste mie riflessioni, al termine delle diffuse ed 

approfondite analisi sulla “Civiltà del Pane”, darei per scontato che il pane sia cibo 

eletto e simbolo di civiltà e mi  limiterei ad esporre soltanto alcuni dei motivi che ne 

reggono l’assunto, per privilegiare talune chiose sul pane e sul cibo in generale, 

di cui esso è simbolo, nelle loro implicazioni sullo sviluppo delle società e dell’

economia, sulla qualità della vita, sulla tutela ambientale, sulle sperequazioni nei 

processi di produzione e distribuzione del cibo e sulla conseguente fame nel mondo. 

In ciò sollecitato anche dal successivo intervento del Direttore Generale della FAO, 

Graziano da Silva a conclusione di questo evento, dovuto all’illuminato e fattivo 

impegno del professor Gabriele Archetti. Inoltre, essendo la mia una relazione 

d’assieme sugli aspetti riguardanti il pane, nei termini evidenziati dal titolo, mi 

sembra opportuno allargarne la trattazione ad alcune delle emergenze dianzi 

accennate, che caratterizzano valori propri della civiltà del pane.

 

Il Pane all’origine

Partendo da quel pane che, con la scoperta del fuoco che ne permise la cottura,

contribuì a distinguere gli umani dagli animali, superando anche l’abituale ingestione 

di alcaloidi nocivi, propria di taluni fondamentali consumi di derrate crude. Esso 

scandisce il passaggio dai prodotti della natura al prodotto dell’uomo.

Infatti, il pane si realizza col lavoro, con l’azione del lievito i cui enzimi operano per 

evitarne la decomposizione, col fuoco che lo cuoce. Fu l’inizio della civiltà, resa 

possibile al termine della glaciazione, con le coltivazioni agricole e la stazionarietà 

degli insediamenti.

Dapprima composto con castagne, ghiande, radici, erbe, poca farina e terra o 

sabbia, soprattutto nei periodi di carestia, andò via via assumendo forme e contenuti 

sempre più raffinati, anche a seguito della casuale scoperta della lievitazione delle 

farine sulle rive del fiume sacro, all’epoca della 18.a dinastia egizia. Sino a 

caratterizzare, con varie forme e composizioni, le diverse aree geografiche, le 

culture locali e le tradizionali solennità. Ciò fece dire ad Agostino che il pane 

racconta la nostra terra e anche la nostra storia (1). 

Ma già prima di lui le antiche cronache ricordano che i Sumeri erano considerati civili 

perché si nutrivano di pane di frumento, a differenza dei barbari. Nell’Urbe romana i 

nobili, i liberi e i religiosi utilizzavano anche loro pane per lo più di frumento, del 

quale era vietata la vendita ai contadini, mentre la plebe si nutriva di polenta di farro. 

 

Il Pane “status symbol”

La tipologia del pane prodotto e consumato mantenne a lungo la caratteristica di 

“status symbol”. Ancora nel primo novecento le famiglie contadine si nutrivano di 

pane prodotto in casa e composto con i cereali di propria produzione, in prevalenza 

granoturco e segale. Soltanto gli abitanti delle città e chi lavorava nelle fabbriche 

erano in grado di nutrirsi del pane del fornaio, che si differenziava sempre più 

secondo le colture prevalenti nell’area e le diversità ambientali e culturali, con le 

richiamate  tipizzazioni nell’occasione di particolari ricorrenze o festività. 

 

(1) Agostino d’Ippona, più noto come Sant’Agostino o “Doctor Gratiae”, filosofo,

vescovo e telogo (Tagaste nell’attuale Algeria, 354 d.c./ Ippona, 430 d.c.).

 

 

Con il pane, si è soliti consumare altre derrate alimentari, chiamate “companatico”, 

a conferma della preminenza del pane. La cui rilevanza trova pure conferma nel 

significato religioso di strumento di comunione tra il creatore e l’uomo. 

Anche Papa Bergoglio ha recentemente ricordato che “Il pane partecipa in qualche 

modo della sacralità della vita umana e perciò non può essere trattato soltanto come 

una merce”. Nella sua recente visita alla FAO, ha riconosciuto il valore del pane,

quale cibo eletto e indice di civiltà, che può contribuire ad una risposta all’appello di 

chi ha fame ed è denutrito, attraverso un miglior utilizzo delle risorse alimentari che 

non sia influenzato soltanto dalla “priorità del mercato” e dalla “preminenza del 

guadagno”, da cui conseguono gravi sperequazioni nella distribuzione del cibo (2).

Viene qui in questione lo schema di consumo generale degli alimenti ed il ruolo del 

pane,  che è stato definito di mediazione per l’economia del naturale e la tutela 

ambientale.

 

Le lenticchie di Esau

Da giovane mi chiedevo perché Esau non si fosse accontentato del pane o, quanto

meno, della metà delle lenticchie di Giacobbe per salvare, almeno in parte, i diritti 

della primogenitura (3). Cosa centra Esau con noi? Centra molto perché da adulto 

constato che noi, come Esau, paghiamo un caro prezzo nel puntare spesso e 

comunque troppo sulle lenticchie, mettendo a repentaglio aspetti fondamentali 

come la salute, l’equilibrio sociale, l’ambiente naturale. Soprattutto, rinunciamo all’

equilibrio rappresentato dall’uso corretto del pane e del companatico, in assenza 

del quale tutto si scompone, peraltro  senza  ottenere con questo benefici durevoli.

Facciamo come il gambero? Dopo l’”homo sapiens”, poi “agricola”, poi “faber”, 

arriviamo all’”homo ludens”, che cammina a ritroso, almeno in alcune aree 

economicamente sviluppate? E’ quello che succede, stando ad evidenze statistiche, 

dalle quali risulta che il consumo di pane tradizionale rimane particolarmente elevato 

laddove i consumi nel loro assieme appaiono più virtuosi, mentre decresce 

sensibilmente nelle aree  economicamente più favorite. Qui si consuma meno pane, 

che talvolta viene troppo sofisticato e privato di alcune qualità importanti (4).

 

Il gambero dei consumi

Va rilevato che in ogni area geografica il pane è da sempre conosciuto come 

alimento primario pressoché unico. Tuttavia, a mano a mano che lo sviluppo 

economico rende disponibili maggiori capacità di spesa, il prezzo del pane aumenta 

di molto, anche per la diversa cura e presentazione che ne viene fatta.  Il che 

comporta maggiori costi, come è più che logico, ma il consumatore riduce il ricorso 

al pane per la sua alimentazione. 

 

(2) FAO, “II Conferenza sulla nutrizione”, Roma, 20 novembre 2014.

 

(3) Giacobbe, nel libro della Genesi, ci viene mostrato tanto furbo da far odorare le 

sue vesti di animali bruciati per sostituirsi a Esau, che era sempre con gli animali, e 

confondere il padre cieco per ottenerne la benedizione come primogenito.

 

(4) Raramente è presente quel profumo che consegue alla farina macinata a pietra 

e alla lievitazione con pasta madre, che rimanda all’occasionale scoperta del 

lievito madre. Difficilmente ormai ci si imbatte nelle gallette del marinaio, 

soppiantate dalle confezioni luminescenti dei supermercati. 

Nell’assenza di un’adeguata informazione, o meglio, di un “marketing” specifico 

come per gli altri prodotti, si continua a consumarlo, ma quasi più per riflesso del 

costume acquisito in giovane eta, quando si consumava più pane, e per istintivo 

assecondamento della tradizione. Di questo passo, però, si rischia di ridurre 

ulteriormente il suo consumo. 

Si impone, pertanto, una maggior attenzione alla comunicazione, che ne mantenga 

viva l’importante essenzialità, che contrasti le poco credibili diete senza pane, che 

ne ponga in risalto i valori nutritivi e salutistici, ma anche culturali, avendo presente 

che tutti gli altri prodotti in vendita vengono ammantati di valori, del tipo: “la tua auto”,

“l’auto che ti ama” e quant’altro.Sono eccessi, ma ricordiamo che il pane, più di ogni 

altro prodotto, offre richiami culturali e persino affettivi ben più reali, che vanno 

ricordati e fatti valere.

 

Progresso e decadenza 

Ma se il pane è cibo eletto e simbolo di civiltà, viene spontaneo chiedersi se stiamo 

assistendo ad uno scadimento più generale e diffuso di importanti valori, laddove 

si hanno redditi tanto elevati da promuovere atteggianti marcatamente consumistici.

E ciò porta a riflettere sul rapporto tra sviluppo economico e civiltà, intesa come 

riconoscimento e rispetto di comuni valori; sul rapporto tra progresso e decadenza.

Sembra di essere davanti ad un metaforico palazzo luminoso ed imponente, 

affacciato ad una grande piazza,  ma svoltato l’angolo vediamo l’apertura delle 

grandi finestre come orbite vuote, sprangate da assi di legno.

 

La neuroeconomia

Viene qui in questione la neuroeconomia, cioè quel ramo dell’economia che va 

delineandosi con contorni sempre più precisi, la quale pone in relazione l’uomo e 

la gratificazione dei suoi comportamenti nell’utilizzo dei beni di cui dispone nella 

cosiddetta “società fluida” dai mille paradossi. Ne risultano constatazioni come 

quella della ricchezza senza felicità, per la quale, oltre ad un certo livello, la maggior 

disponibilità di beni non accresce la gratificazione. A quel punto ci troveremmo come 

su di un “tapi rulant”: si può accelerare finché si vuole il ritmo, ma restiamo sempre 

fermi (5). 

Infatti, da studi del concetto di felicità e  delle sue relazioni con lo sviluppo 

economico risulterebbe che il livello medio della felicità non è strettamente 

rapportabile a quello del reddito medio pro-capite, salvo laddove vi sia difficoltà nel 

soddisfacimento dei bisogni primari. Stante questa incongruenza è il caso di porre 

in discussione anche le valutazioni del benessere di un Paese, attraverso il solo 

Pil, che è idoneo a svolgere soltanto una funzione  strumentale per altre finalità (6). 

 

(5) Sul “tappi rulant” il nostro movimento in un verso viene annullato dal movimento 

opposto del tappeto. Si pensi, ad esempio, ad un maggior impegno professionale  

che produca maggiori risorse ma riduca significativamente la presenza in famiglia e 

la vita di relazione in generale, con scadimento della qualità della vita.

(6) Basti considerare che un aumento del PIL, ove fosse realizzato con danno 

ambientale, inciderebbe negativamente sul livello di felicità. Inoltre il Pil non può

misurare una serie di condizioni capaci di incidere sulla felicità, come il grado di 

libertà delle scelte o l’esercizio di altri diritti, la qualità delle relazioni col prossimo, 

che in molte situazioni, familiari o di amicizia, ma non solo, offrono gratificazioni 

legate al “dare”, anziché all’ “avere”, ed in genere la premiante realizzazione di 

comportamenti configurabili come “altruismo razionale”, richiamato anche 

recentemente da Letizia Moratti nell’incontro all’ONU.

 

Il dannoso tutto e subito

La metafora delle lenticchie ci riporta alla tendenza a mirare al solo companatico, 

tutto e subito possibilmente. Un tutto e subito che mina l’economia, la pace sociale, 

l’equilibrio ambientale. In economia il tutto e subito induce a puntare sulle 

“performance” di breve periodo, buttando le risorse disponibili in un vortice che mette 

talvolta a rischio la solidità nel medio e lungo termine anche di Istituzioni storiche. 

E’ quello che è accaduto con l’avvio della crisi, dapprima finanziaria e poi dell’

economia reale, con i titoli “sub prime” nell’estate 2007 negli USA e poi estesasi a 

tutto il mondo. Crisi ancora da superare, soprattutto in taluni Paesi europei, 

nonostante l’enorme liquidità inserita e l’accrescimento del debito globale,  da 

142 mila a 199 mila miliardi, tra il 2007 ed il 2014, corrispondente al 286% del Pil 

dell’intero mondo. Senza tener conto dell’ esorbitante massa di titoli derivati in 

circolazione, capaci di crisi, anche sistemiche.

La corsa al  profitto a breve induce a trascurare la solidità finanziaria nel medio e 

lungo periodo e lo stesso equilibrio ambientale. Sembra di essere su di un 

metaforico Titanic in cui alcuni stanno sul ponte di comando, altri curano i loro affari 

o banchettano sui ponti riservati, mentre i più sono ammassati nel deck e viaggiano 

verso una meta a tutti ignota, anche per il venir meno dei tradizionali modelli 

interpretativi dell’economia e della società, travolti dagli imprevedibili effetti della 

finanza globalizzata, con la sua enorme massa di debito pubblico e privato e di

titoli, per lo più derivati, che non potranno mai essere onorati, ma solo rinnovati 

anche con fantasiose modalità di ingegneria informatica (7).

 

La finanza sociale 

Tutto ciò porta a considerare l’esigenza di poter disporre di strumenti finanziari in 

grado di intervenire direttamente nel circuito finanziario, per il cui tramite le risorse 

possono affluire a sostegno degli investimenti virtuosi. E il caso dei  “New

instruments of social finance”, richiamati da Letizia Moratti nell’incontro al Palazzo 

di Vetro di New York, per la presentazione del “Manifesto di finanza sociale”, da lei 

promosso e proposto anche come sviluppo culturale per il rilancio della sostenibilità 

della crescita nei mutandi modelli economici e sociali. 

Un percorso culturale capace di immaginare interventi di lungo periodo che sappiano 

operare virtuosamente nel sociale e per la tutela dell’ambiente. In assenza dei quali 

si rischia non solo di andare indietro, di fare come il gambero nel consumo del pane, 

ma di accrescere le sperequazioni sociali già eccessive, la povertà di parte del 

mondo, la denutrizione di vaste popolazioni e l’inaridimento della terra (8).

 

(7) Secondo il “McKinsey Global Institute”, il Giappone, col 400%, è il più indebitato 

tra i Paesi sviluppati, mentre l’Italia figura al 12% posto con il 259%, preceduto da 

Paesi come l’Olanda col 325%, il Belgio, col 327%, la Svezia, col 290%, la Francia, 

col 280%. Con la crisi sino stati immessi enormi capitali: secondo la “Shadow 

BankinG”, negli USA 4  trilioni di dollari, in Giappone 2 trilioni, nell’ Eurozona 

1 trilione di dollari: Ma sembra ne abbia beneficiato molto la finanza e quasi nulla 

l’economia reale, col lavoro che scarseggia e le difficoltà nelle prestazioni della 

Pubblica Amministrazione, soprattutto locale.

 

8) ONU, “New instruments of social finance”, New York, Palazzo di Vetro, 

4 novembre 2014.

 

 

 

 

 

La fame nel mondo 

Viene posta in discussione la sostenibilità futura della filiera alimentare, in vista dei 

9 miliardi di abitanti della terra, che richiedono un aumento del 60% della produzione 

di derrate alimentari entro il 2050. Da realizzare pur in presenza di imprevedibili 

cambiamenti climatici, di tendenze allo spreco di circa un terzo del cibo prodotto e

con esso delle risorse naturali e di tutti gli altri fattori utilizzati, di un eccessivo 

impiego di cereali nell’allevamento del bestiame e nella produzione di carburanti, 

che sottraggono terra alle coltivazioni per l’alimentazione umana (9). 

Ad aggravare queste considerazioni si consideri  il miliardo di persone affamate, in 

parte residenti in Paesi economicamente sviluppati, cui si aggiungono due miliardi 

senza adeguata alimentazione di alcuni nutrimenti essenziali, nonostante nel mondo 

ci siano alimenti in abbondanza (10). Vi si contrappone il miliardo e mezzo di 

persone obese o in rilevante sovrappeso, dovuto pure ad un errato schema di 

consumo, eccessivamente orientato alle carni, con pesanti costi ambientali, 

soprattutto in alcuni Paesi sviluppati (11). Si pensi, infine, alle sperequazioni nella 

produzione e nella distribuzione delle derrate, originarie per l’ 80% da piccoli 

produttori spesso rimunerati in misura insufficiente rispetto al loro impegno e privi di 

adeguati incentivi, nonostante la riconosciuta loro virtuosità nella salvaguardia della 

terra (12). 

Papa Francesco ha recentemente ricordato che “si tratta di eliminare quegli ostacoli 

che penalizzano un’attività così preziosa e che spesso la fanno apparire poco 

appetibile alle nuove generazioni, anche se le statistiche registrano una crescita del 

numero degli studenti nelle scuole e negli istituti di agraria, che lascia prevedere un 

aumento degli occupati nel settore agricolo”. 

Un settore che a giudizio di Carlo Petrini, ideatore di “Slow Food”, offre la possibilità 

di realizzarsi in una dimensione più umana con applicazione della creatività 

individuale, del vivere con se stesso,  del buon uso delle risorse secondo l’anima dei 

contadini e degli artigiani, di chi tiene viva la creazione. Si può concludere che per il 

 

(9) Un terzo della produzione mondiale di cereali è utilizzata come mangime per 

animali. Philip Lymbery, presidente della “Compassion in world farming”, in 

“Farmageddon - the true cost of cheap meat”, precisa che per allevare una 

tonnellata di pesce salmone o trota, vengono sacrificate sei tonnellate di acciughe 

o di altri pesci non di allevamento.

 

(10) Questo paradosso è stato denunciato anche da Giovanni Paolo II  con l

’affermazione che “C’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiarne, mentre lo 

spreco e lo scarto sono davanti agli occhi di tutti”.

 

(11) Philip Lymbery, presidente della “Compassion in world farming”, in 

“Farmageddon - the true cost of cheap meat”, opera citata, sostiene che nei Paesi 

sviluppati si consuma da due a tre volte il fabbisogno di carni.

 

(12) Un discorso a se meriterebbe il nostro Paese, osannato per il buon cibo e il 

particolare clima, utile alle coltivazioni agricole, che esporta per 31 miliardi di 

Euro e importa ben 35 miliardi di alimenti dall’estero.

 

 

 

cibo si tratta, anche e forse soprattutto, di un problema culturale che coinvolge tutto, 

dai processi di produzione, alla destinazione e distribuzione, allo schema generale 

dei consumi alimentari. Con Papa Francesco, può avvertirsi l’esigenza che sia 

“ripensato a fondo il sistema di produzione e distribuzione del cibo”, argomento che 

sarà ripreso nell’enciclica in approntamento. Egli ha altresì affermato che 

 “L’assolutizzazione delle regole del mercato, una cultura dello scarto e dello spreco 

che nel caso del cibo ha proporzioni inaccettabili, insieme con altri fattori, 

determinano miseria e sofferenza in tante famiglie”. 

 

Lo schema generale dei consumi

Quanto all’utilizzo di cibo, si avverte l’esigenza di nuove tematiche in grado di 

orientare verso consumi più salubri e compatibili con l’ambiente, come validamente 

sostenuto dalla Fondazione Barilla (13). Se l’intera popolazione del globo 

consumasse secondo la media italiana, non dissimile da quella europea, 

occorrerebbero le risorse di due mondi e mezzo, mentre se consumassimo tutti 

come un etiope, basterebbe mezzo pianeta per sopravvivere. Nel suo assieme il 

problema della fame è quindi un problema più politico che tecnico.  

Viene qui posto in questione il diritto all’alimentazione, che solo 35  Paesi hanno 

inserito nella propria Costituzione (14), come ha recentemente ricordato il Ministro 

alle Politiche Agricole Alimentari e Forestali Maurizio Martina, e che va richiamando 

sempre più l’attenzione di quanti abbiano a  cuore il futuro dell’umanità. 

Il cibo denota più di ogni altro indicatore il livello di sviluppo di un’area, sia per gli 

aspetti economici, sia per quelli della virtuosità dei consumi e della qualità della vita. 

In questo è soprattutto il consumo di pane l’elemento di maggior portata di un’analisi 

del reale livello di sviluppo socioeconomico e di virtuosità nel vivere valori autentici 

e non effimeri; questi ultimi spesso indotti da distorsive campagne pubblicitarie.

 

Le nuove modalità di valutazione

Per meglio valutare dove il consumo di pane è più virtuoso, sono in fase di studio 

alcuni modelli che tendono ad individuare  il punto in cui il consumo generale da 

virtuoso  diviene indicatore di scadimento nel consumismo e, in questo processo, 

dove si colloca lo specifico  utilizzo del pane, come nutrimento virtuoso del corpo 

e delle aspettative di gratificazione del lavoro e della vita. Matrici e modelli da 

applicare poi ad altri alimenti, con i dovuti aggiustamenti. In sintesi una curva 

“gaussiana” che delinei il punto di svolta, da sovrapporre a quella del consumo del 

pane nelle diverse aree considerate, suddivise per classi di reddito delle popolazioni. 

Questi modelli, partendo dal mio “Metodo della scomposizione dei parametri”, 

cui l’Enciclopedia Treccani ha dedicato una voce (15) e utilizzando matrici 

 

(13) Utili al riguardo le indicazioni della Fondazione Barilla, in VI Edizione 

“International Forum on Food and Nutrition” , Università Bocconi, Milano, 

3/4.12.2014

 

(14) Tra i quali Brasile, India, Messico e nessun Paese dell’Europa.

 

(15)In Appendice: Enciclopedia Treccani, “Metodo della scomposizione dei parametri” 

http://www.giancarlopallavicini.it/economia/metodo-della-scomposizione-dei-parametri

 

 

ergonomiche  con ricorso a SW Neurali e ad alcune applicazioni dell'intelligenza 

artificiale, sono infatti in grado di indicare dove il consumo di pane appare più 

virtuoso, in rapporto ai consumi complessivi, alle capacità di spendita e  alle 

tradizionali abitudini di consumo delle popolazioni. Il ricorso a queste modalità di 

analisi accresce e confronta meglio, su più livelli e con diverse interconnessioni,

le variabili considerate nella scomposizione dei parametri.

Di tali innovazioni tecnologiche si hanno esempi nell’ambito della filiera alimentare

come per la campagna di prevenzione denominata “DetoxFungi”, condotta nell’

Unione Europea, nonché in ricerche nella Pubblica Amministrazione italiana (16).

 

La tutela ambientale

Questi, dell’andamento del consumo del pane, dell’eccesso di consumi di carni e di 

altre particolarità del consumismo, sono aspetti che coinvolgono pure la complessa 

e vasta tematica della tutela ambientale e delle connesse variazioni climatiche. 

Attorno ad essa va rivelandosi un interesse sempre crescente, anche per lo stimolo 

indotto dai puntuali richiami delle principali Istituzioni internazionali e di Papa 

Bergoglio (17),  Il che mi induce ad estendere queste mie righe al rapporto fra attività 

economica ed ambiente culturale e naturale ed all’esigenza, non più procrastinabile, 

di meglio definire e più concretamente applicare la “soglia” alla quale arrestare il 

diritto dell’uomo a intervenire sull’ambiente per migliorare la qualità della vita, senza 

invece finire col peggiorarla, come annotato nel testo in “Appendice” (18).

 

Conclusioni

L’approfondimento conoscitivo sul pane, di cui è illuminato esempio questo nostro 

evento su “La Civiltà del Pane”, nel più vasto programma di Expo 2015 e della Carta 

di Milano, rappresenta un passaggio obbligato per consentire un futuro più virtuoso 

all'umanità intera, che possa essere indotta a mediare col pane il piatto lusinghiero, 

ma talvolta dannoso, delle sole lenticchie di Esau ed evitare a tutte le aree  favorite  

economicamente l'arretramento del gambero da me inizialmente richiamato, con la 

sua dannosità per la salute,  per l'equilibrio sociale, per la nostra madre terra e per la 

qualità della vita di ciascuno e di tutti, con ciò riducendo le alee di un percorso meno

virtuoso che tutto travolga, come paventato in diverse sedi ed anche presso la FAO,

pure ad iniziativa dello scrivente (19).

Dal crescente interesse per le tematiche dianzi accennate e dibattute in diverse sedi 

istituzionali e nell’imminenza dell’ Expo 2015, possono essere tratti alcuni 

passaggi di un complesso, ma non eludibile percorso futuro, riguardante il pane e 

l’assieme del cibo di cui è simbolo, tra i quali:

 

- crescita culturale, soprattutto ad iniziativa pubblica e nello specifico ambito della 

formazione scolastica,

 - miglior conoscenza del cibo sostenibile per il minor impatto ambientale, con 

specifica attenzione alla virtuosità del pane e al  contenimento degli sprechi di cibo;

-  individuazione e realizzazione di azioni comuni di “marketing” per la valorizzazione 

del pane; 

- riduzione del divario fra il progresso tecnologico per il cibo e l’arretratezza nel 

definire le possibilità ed i limiti dell’alimentazione, evidenziato anche dalle 

riproduzioni di cibo mediante stampanti in 3D, recentemente proposto anche 

in Italia da “Foodini”;

- misure di tutela e incentivazione in favore dell’imprenditoria agricola, con 

particolare riguardo ai piccoli coltivatori;

- crescente attenzione al rapporto tra sviluppo economico e tutela ambientale;

- nuovo modello di sviluppo globale che riduca  l’eccessiva sperequazione tra 

ricchezza e povertà e ponga rimedio alle vaste aree di denutrizione, avendo 

presente che si tratta di aspetto più politico che tecnico.

 

 

 

 

 

 

 

 

(16)  Maggiori dettagli in http://www.giancarlopallavicini.it/economia/metodo-della-

scomposizione-dei-parametri/un-applicazione-concreta

 

(17) Di particolare interesse la sua affermazione “la terra non è un’eredità che noi 

abbiamo ricevuto dai nostri genitori, ma un prestito che fanno i nostri figli a noi,  

perché noi la custodiamo e la facciamo andare avanti per riportarla a loro”.

 

(18) In Appendice: Giancarlo Pallavicini, ”I limiti ambientali dell'agire economico", 

in ONU/Unesco, Terzo Congresso Mondiale Zeri, Jakarta, 1997, relazione

anticipata in "Il Suono e la Parola", pubblicato dal Rotary Club Milano San Siro, 

1996, col titolo "Economia e tutela dell'ambiente”.

 

(19) Giancarlo Pallavicini, Commento al vertice FAO di Roma del 3.06.2008

“Nella veloce dinamica dell’era globale, che produce profonde mutazioni con 

l’intrecciarsi, colludere o scontrarsi delle diversità, accentramento della ricchezza,  

aggravio della povertà e fame, va emergendo l’esigenza di una responsabilità 

individuale e collettiva, senza la quale l’uomo è smarrito e perde una parte della 

propria identità “ontologica”. Viene meno il paradigma “libertà e responsabilità” che 

è strategico nell’era globale, in cui tutti siamo sensibili ed esposti agli altrui 

comportamenti, e ingrossa le frange degli emarginati, il cui disagio si riversa prima 

o poi su tutti. anche per influssi di natura economica, determinando situazioni 

sempre più difficili da controllare. Affinché l’auspicata responsabilità si sostanzi 

positivamente è auspicabile intervenga una mediazione culturale in grado di 

individuare e far emergere atteggiamenti e regole che attenuino l’esaltazione al 

massimo profitto economico come unico obiettivo e non penalizzino l’uomo e il suo 

ambiente sociale, culturale e naturale”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendice

 

Giancarlo Pallavicini: “I limiti ambientali dell'agire economico”, 

ONU/Unesco, Terzo Congresso Mondiale Zeri, Jakarta, 1997;

 

“Economia e tutela dell’ambiente”, in “Il Suono e la Parola”, 

Rotary Club  Milano S.Siro, 1996, Il Narratario, da pag. 97.

            

 

E’ in atto una crescente attenzione alla “soglia” alla quale arrestare il diritto dell’uomo

ad essere “agricola” e “faber”, ora “communicans” o “coniunctus”, intervenendo sull’

ambiente per migliorare la qualità della  vita, senza giungere invece a peggiorarla.

Ciò presupposte ovviamente di stabilire un concetto di “migliore qualità della vita”,

che, ad esempio, consenta di dire se sia auspicabile vivere in un mondo meno 

inquinato, ma con minori disponibilità di beni e servizi, oppure convivere con alte 

produttività inquinanti.

Ne consegue che la fissazione della soglia alla quale arrestare la manipolazione

dell’ambiente non deve rispondere soltanto alla ‘legge economica’ di massimizzare 

il profitto e minimizzare il danno, ora largamente prevalente. Basti pensare che non 

è neppure detto che interventi esasperati per giungere a eliminare completamente il 

danno fisico di un’eccessiva manipolazione dell’ambiente naturale possa essere 

legittimo, se ciò non assecondasse in modo adeguato il rapporto tra l’uomo e la 

natura. Ne deriverebbero, infatti, frustrazioni delle esigenze di fruizione immateriale, 

anche soltanto estetiche, dell’ambiente naturale.

Questo impone l’individuazione e la definizione di modelli concettuali nuovi, atti a 

considerare il comportamento degli ecosistemi e gli insieme di interazione tra attività

umana e ambiente, nell’ambito di uno scenario complessivo, che consenta una 

visione d’assieme delle diverse parti interagenti nel complesso sistema ambientale e 

che escluda considerazioni isolate, inidonee a una corretta comprensione dell’uomo 

e dell’ambiente.

Balza da ciò in evidenza anche la dimensione non certo locale, ma universale della

materia trattata.

Le politiche sinora adottate, con il ricupero del danno prodotto nell’immediato o con 

l’attenuazione dell’inquinamento, non sembrano assecondare la visione d’assieme

del rapporto uomo-ambiente e l’esigenza di chiaramente individuare nei 

comportamenti economici  e sociali uno dei principali fattori di influenza negli 

squilibri ambientali. Soprattutto appaiono inidonee a determinare il mutamento 

culturale atto a comprendere il fatto ambientale e i limiti da esso imposti allo sviluppo.

Il conflitto tra ambiente e sviluppo, che certamente esiste, va risolto con la 

definizione, in via preventiva, del “limite accettabile”, abbandonando la prassi del 

rimedio a posteriori, con ciò evitando di varcare i limiti di sostenibilità, oltre i quali 

vengono penalizzati uomo e ambiente. Si dovrà dunque sviluppare una coscienza 

comune, che stimoli alla valutazione delle conseguenze sugli altri degli atti volti al 

perseguimento dell’interesse individuale.

A questa coscienza non potranno sottrarsi le aziende di produzione e servizi.

E’ di tutta evidenza, infatti, che l’attività d’azienda, pur facendo perno, per come 

deve essere, sull’aspetto più strettamente economico della vita aziendale e 

ovviamente sul profitto, non può trascurare, ma deve anzi tenere esplicitamente 

presente una serie di altre istanze “interne” ed “esterne”, alle quali la vita stessa 

dell’azienda è sensibile e che compongono, nell’assieme, la realtà in cui l’azienda

vive ed opera. Di queste realtà, del resto, le aziende sono cellule economiche 

singole, il cui armonico comporsi tra di loro e con altre componenti non economiche,

consente possibilità di vita e di successo allo stesso sistema economico cui 

partecipano.

Tale sistema è espressione dell’attività umana volta al miglioramento della qualità

della vita, unitamente ad altre componenti. Il denaro vi gioca un ruolo strumentale

essenziale. Ma allorquando da mezzo di scambio diviene fine unico dell’attività, 

finisce col porre in dubbio la stessa legittimità delle manipolazioni umane sull’

ambiente. Partendo da questa considerazione si giunge ad auspicare l’adozione 

di modalità di valutazione dell’attività economica che vadano oltre il solo profitto.

Anche al livello “macroeconomico” va delineandosi l’inadeguatezza delle valutazioni

arcaiche legate al solo “PIL - Prodotto Interno Lordo”. Esso appare utile per funzioni 

di indirizzo dello sviluppo economico, soltanto laddove venga perseguita una 

disponibilità sempre crescente di beni e servizi, a prescindere da ogni altra 

istanza dell’uomo col suo ambiente sociale, culturale e naturale. 

Ma in circostanze caratterizzate da squilibri socio-economici e da degrado sociale, 

culturale e naturale, che sollecitano indirizzi di limitazioni nell’uso delle risorse e 

di attenzione alla loro più equa ripartizione, il solo PIL evidenzia tutta la sua arcaicità,

non essendo in grado di assecondare un più virtuoso sviluppo.

Tornando alle modalità di valutazione dell’attività d’azienda, un primo tentativo di

innovazione è stato avviato negli anni 1960, a titolo forse un po’ provocatorio, con

la proposta del “Metodo della scomposizione dei parametri”(*), ma più recentemente

una simile impostazione delle quantificazioni aziendali sembra suscitare maggior 

interesse, soprattutto nei Paesi dell’Est europeo, ma anche nell’Occidente, in 

relazione ai condizionamenti promossi, pure a livello economico, dal rafforzarsi delle 

istanze ambientali. Pure a Cuba, nell’economia della pianificazione che non sembra 

offrire margini alle applicazioni innovative, la presentazione del suddetto modello ha 

suscitato interesse, sia pure al livello solo accademico. (**)

Si tratta di fermenti suscettibili di portare nel tempo a risultati concreti, in vista di un

prevedibile approfondimento, non solo culturale, dei comportamenti economici e 

sociali e della qualità della vita, al quale tutti dobbiamo essere sensibili.

Questo stesso incontro costituisce conferma dell’interesse all’argomento trattato

e, per certi aspetti, un significativo approfondimento, volto alla futura definizione di 

più sensibili rapporti tra impresa ed ambiente, che presupposte nuovi modelli 

concettuali ed etici, capaci di tradursi in futuri e più virtuosi atteggiamenti concreti.

 

(*)   Giancarlo Pallavicini, “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano”, Milano,

      Giuffré Editore, 1969; 

Enciclopedia Treccani, “Metodo della scomposizione dei parametri”, in“Appendice”

 

(**) Giancarlo Pallavicini, "Sirven nuevos mensajes y reglas a la globalizacion", 

      in III Encuentro Internacional de econonistas, "Globalizacion y problemas del 

      desarrollo", La Habana, 2000

 

 

 

 

Enciclopedia TRECCANI

 

METODO DELLA SCOMPOSIZIONE DEI PARAMETRI

 

Aggiornamento dei canali tematici

metodo della scomposizione dei parametri di Giancarlo Pallavicini

 

Modalità di calcolo dei risultati non direttamente economici dell’attività d’impresa, 

connessi ad istanze etiche, morali, sociali, ambientali e culturali, che ha introdotto 

il moderno concetto di “responsabilità sociale d’impresa” ed ha anticipato i suoi più 

recenti sviluppi.

Esso è stato ideato e proposto dall’economista italiano Giancarlo Pallavicini negli 

anni 1960, nel presupposto che l’attività d’impresa, pur essendo orientata al profitto 

di chi la promuove, non dovesse trascurare, ma tenere esplicitamente presente, 

una serie di istanze riguardanti l’uomo ed il suo ambiente sociale, culturale e 

naturale. 

Non come mera affermazione di principio, bensì in modo concreto e calcolabile 

come avviene per il profitto. Dopo una prima applicazione sperimentale presso 

la Cariplo negli anni 1960, intesa a valutare l’apporto dei singoli sportelli bancari allo 

sviluppo del “credito speciale”, all’epoca erogato soprattutto attraverso il 

Mediocredito Lombardo, questo metodo è stato pubblicato dall’Editore “Giuffré” nel 

1968 in “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano”. Una proposta all’epoca 

rivoluzionaria, ripresa e sviluppata nei suoi presupposti da altri economisti e 

particolarmente da Robert Edward Freemann, nel suo saggio “Strategic 

Management: a Stakeholder Approach”, pubblicato a Londra nel 1984. 

Soltanto in epoca recente viene però compreso nella sua valenza come strumento 

di calcolo dei risultati non direttamente economici, in grado di esercitare i suoi effetti 

anche sul risultato finale e di apportare valore all’impresa.

Non fosse altro che per il fatto che le istanze interne ed esterne all’impresa, alle quali 

il metodo si riferisce, caratterizzano l’”habitat” in cui l’azienda opera ed influenzano 

le possibilità di vita e di successo dell’impresa stessa. Inoltre, esse coinvolgono 

positivamente i portatori di interesse (stakeholders) interni ed esterni all’impresa, 

apportandovi valore.

Per questo, nel crescente interesse per la “responsabilità sociale d’impresa”, 

manifestatosi all’inizio del nuovo millennio e che ha ricevuto ulteriore impulso dalla 

crisi mondiale avviatasi nel 2007, dapprima nell’ambito finanziario e poi nell’

economia reale, va delineandosi in modo sempre più marcato l’esigenza di 

considerare, e quindi di valutare concretamente, il grado di affermazione dei 

principi dell’etica nell’economia in generale e nell’attività finanziaria in particolare. 

Si afferma pertanto il principio che per una simile valutazione debba farsi ricorso 

a nuove modalità, che vadano oltre i cosiddetti “codici etici” ed i “bilanci sociali” 

ed oltre gli stessi “standard di qualità”, per avvicinarsi ai criteri che, negli anni 1960, 

hanno ispirato il “Metodo della scomposizione dei parametri”.

Secondo l’impostazione iniziale di Pallavicini, esposta nella “Prefazione” al volume 

citato, si tratta di operare “…formulando nuove ipotesi di impostazione e di 

interpretazione delle determinazioni quantitative di maggiore e più frequente rilievo 

… … in cui le astrazioni proprie dell’indagine, che contempla fenomeni d’azienda 

nell’aspetto economico e condizionamenti dell’ambiente in cui l’azienda opera, 

vengono quantificate sì da addurre ad un contatto con i complessi atteggiamenti 

dell’amministrazione concreta”. I richiami a questo metodo, all’epoca rivoluzionario, 

hanno voluto costituire, secondo il suo ideatore, un “… contributo all’indirizzo di 

metodo a ciò appropriato e vogliono essere soprattutto intesi a richiamare 

l’attenzione di quanti, uomini di scienza ed operatori economici, seguono con 

particolare cura questa materia”.

All’origine questo metodo proponeva di articolare l’obiettivo finale dell’azienda in 

una serie di parametri, che consideravano, oltre al profitto, non più identificabile 

come unico obiettivo, una serie di componenti aventi un rilievo non direttamente 

economico, ma non estranei all’esigenza di conseguimento di un adeguato reddito. 

Componenti in grado di apportare valore all’impresa, per gli effetti positivi nella 

proiezione e nel consolidamento dell’impresa, per il miglioramento della percezione 

fattane dagli “stakeholders” interni ed esterni all’impresa e per il più armonico 

comporsi nel sistema economico cui l’impresa partecipa.

Secondo il metodo dei parametri, occorre procedere in diverse direzioni riguardanti:

1) l’articolazione dell’obiettivo dell’attività economica, che va portato al contatto con 

i fenomeni concreti dell’impresa e dell’ambiente in cui essa opera, attraverso una 

ripartizione che assegni ad ogni componente una precisa aliquota dell’obiettivo 

globale fatto uguale a 100; 

2) l’analisi dell’attività d’impresa, che deve prendere in considerazione la complessa 

funzione di processo e prodotto, nelle singole azioni in cui si dirama, individuandone 

di ciascuna il possibile effetto su uno o più componenti l’obiettivo globale;

3) il raggruppamento in classi e sottoclassi delle singole e varie azioni, che consenta 

di valutare il grado in cui esse assecondano o contrastano il perseguimento dei 

diversi componenti l’obiettivo dell’impresa;

4) l’articolazione qualitativa, che va riportata agli aspetti quantitativi di ogni classe 

o sottoclasse di azioni, sulla base dei volumi operativi svolti, onde pervenire ad una 

quantificazione esprimente il ruolo svolto da ciascuna di esse nel perseguimento 

dell’obiettivo globale ed articolato, da cui estrapolare indirizzi utili ad orientare la 

scelta delle migliori opportunità operative nei loro diversi aspetti.

A questa articolazione iniziale, che nell’obiettivo globale riuniva profitto e risultati non 

direttamente economici, si è successivamente accompagnata una diversa 

applicazione, intesa a superare le difficoltà insite nell’ammettere negli organi 

decisionali i rappresentanti di categorie estranee al capitale di rischio. L’ideatore del 

metodo ha quindi sviluppato ipotesi di contabilità specifiche per gli obiettivi non 

direttamente economici, da porre a lato della normale contabilità in moneta di conto, 

riguardante il solo profitto. Esperienze di tale impostazione sono state avviate all’

estero e, soprattutto nell’Unione Sovietica e nella Federazione Russa, delle quali 

Pallavicini è stato il primo consulente occidentale per la riforma dell’economia, 

soprattutto all’epoca di Michail Sergeevic Gorbacev. Esse hanno poi subito una 

battuta d’arresto con Boris Nikoleevic El’tsin, meno sensibile alla considerazione 

degli aspetti non direttamente economici e meno incline a coniugare il profitto col 

sociale.

Il Metodo della scomposizione dei parametri è stato inoltre utilizzato per la

valutazione del contributo offerto dalle singole unità operative nelle aziende divise ed 

ha pure incontrato applicazione nella valutazione dell’efficienza degli investimenti 

pubblici, secondo le impostazioni richiamate nella citata opera “Strutture integrate nel 

sistema distributivo italiano”. Il suo utilizzo si caratterizza per la flessibilità dell’

impostazione, che va correlata alle alterne fasi della congiuntura economica, 

attraverso la riconsiderazione del peso di ciascun obiettivo parziale dell’attività 

d’impresa, nell’ambito del più generale obiettivo a volta a volta prescelto.

La crisi globale del 2007 e la frequente sostituzione del debito privato con debito 

pubblico sembrano consentire un più diretto intervento decisionale da parte di

rappresentanti dei portatori di interesse anche estranei al capitale e favorire lo

sviluppo di forme di valutazione degli aspetti non direttamente economici dell’attività 

d’impresa, nello stesso ambito della misurazione del profitto, di cui il metodo della 

scomposizione dei parametri rappresenta un’indiscussa anticipazione.

Infatti, le vicende dell’economia, indotte dalla crisi globale della prima decade del 

terzo millennio, sembrano orientare verso il ricupero dell’impostazione iniziale di 

questo metodo, nella quale profitto ed obiettivi non direttamente economici 

partecipano ad un’unica elaborazione del risultato dell’attività d’impresa, mentre il 

necessario aspetto monetario, nella sua specifica contabilità, ricupera il ruolo che 

gli è proprio, quale strumento finalizzato al perseguimento dell’obiettivo globale dell’

attività d’impresa.

 

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CODICE DI CAMALDOLI: Settanta anni

 

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DEFINIZIONI DELLE IMPRESE DELLA G.D.O.  (IN COMPLETAMENTO)

Per una miglior comprensione delle unità operative della G.D e della G.D.O è opportuno rifarsi alle definizioni dell' economista Giancarlo Pallavicini, pubblicate nel 1968 per quelle che all'epoca costituivano le tipologie della distribuzione integrata: grandi magazzini, magazzini a prezzo unico, supermercati, catene di negozi, cooperative di consumo, unioni volontarie e gruppi di acquisto, case di vendita per corrispondenza e altre forme del dettaglio integrato (Case di vendita "porta a porta", case di sconto, centri commerciali verso i quali viene prevista l'evoluzione di parte della grande distribuzione, e "drug stores"), che hanno costituito un riferimento per la normativa nazionale e per gli indirizzi della Comunità economica europea[3] ^Si veda: Giancarlo Pallavicini, "Strutture integrate nel sistema distributivo italiano", Giuffré, Milano, 1968, pagg. VIII/351 - Parte Seconda, pagine da 61 a 209. 

(Wikipedia, voce "Grande Distribuzione Organizzata")

 

RAPPORTO SULLA DISTRIBUZIONE COMMERCIALE IN LOMBARDIA

Nella specifica materia della grande distribuzione organizzata, Giancarlo Pallavicini, incaricato di "Economia della distribuzione commerciale" all'Università Bocconi - SDA Scuola di Direzione Aziendale,  è stato coordinatore di ricerche condotte dall'Università Bocconi con l'Università Cattolica di Milano, per incarico dell'Ente Regione Lombardia (Delibera Giunta Regionale del 29 ottobre 1971). Ricerche intese a definire un quadro di riferimento per le competenze regionali previste dalla nuova normativa sulla distribuzione commerciale, di cui al "Rapporto sulla distribuzione commerciale in Lombardia", Volume 1° e 2°,  e a meglio orientare lo svolgimento di specifici compiti regionali nell'ambito autorizzativo.

  

 

 

   

  • (IN COMPLETAMENTO)

Negli anni 1980 Giancarlo Pallavicini è stato promotore della creazione della Sezione per l'economia dei beni culturali e dell'ambiente, presso il CREA-Centro Ricerce Economiche e Aziendali dell'Università Luigi Bocconi d Milano, istituzione multidisciplinare votata a studi e consulenza a istituzioni pubbliche e private, della quale è stato il responsabile per diversi anni. 

 

Giancarlo Pallavicini: “I limiti ambientali dell'agire economico”, 

ONU/Unesco, Terzo Congresso Mondiale Zeri, Jakarta, 1997;

 

E’ in atto una crescente attenzione alla “soglia” alla quale arrestare il diritto dell’uomoad essere “agricola” e “faber”, ora “communicans” o “coniunctus”, intervenendo sull’ambiente per migliorare la qualità della  vita, senza giungere invece a peggiorarla.

Ciò presupposte ovviamente di stabilire un concetto di “migliore qualità della vita”,che, ad esempio, consenta di dire se sia auspicabile vivere in un mondo meno inquinato, ma con minori disponibilità di beni e servizi, oppure convivere con alte produttività inquinanti.

Ne consegue che la fissazione della soglia alla quale arrestare la manipolazionedell’ambiente non deve rispondere soltanto alla ‘legge economica’ di massimizzare il profitto e minimizzare il danno, ora largamente prevalente. Basti pensare che non è neppure detto che interventi esasperati per giungere a eliminare completamente il danno fisico di un’eccessiva manipolazione dell’ambiente naturale possa essere legittimo, se ciò non assecondasse in modo adeguato il rapporto tra l’uomo e la natura. Ne deriverebbero, infatti, frustrazioni delle esigenze di fruizione immateriale, anche soltanto estetiche, dell’ambiente naturale.

Questo impone l’individuazione e la definizione di modelli concettuali nuovi, atti a considerare il comportamento degli ecosistemi e gli insieme di interazione tra attivitàumana e ambiente, nell’ambito di uno scenario complessivo, che consenta una visione d’assieme delle diverse parti interagenti nel complesso sistema ambientale e che escluda considerazioni isolate, inidonee a una corretta comprensione dell’uomo e dell’ambiente. (si veda sintonia con "Laudato si' " da 139 a 141)

Balza da ciò in evidenza anche la dimensione non certo locale, ma universale dellamateria trattata.

Le politiche sinora adottate, con il ricupero del danno prodotto nell’immediato o con l’attenuazione dell’inquinamento, non sembrano assecondare la visione d’assiemedel rapporto uomo-ambiente e l’esigenza di chiaramente individuare nei comportamenti economici  e sociali uno dei principali fattori di influenza negli squilibri ambientali. Soprattutto appaiono inidonee a determinare il mutamento culturale atto a comprendere il fatto ambientale e i limiti da esso imposti allo sviluppo.

Il conflitto tra ambiente e sviluppo, che certamente esiste, va risolto con la definizione, in via preventiva, del “limite accettabile”, abbandonando la prassi del 

rimedio a posteriori, con ciò evitando di varcare i limiti di sostenibilità, oltre i quali vengono penalizzati uomo e ambiente. Si dovrà dunque sviluppare una coscienza comune, che stimoli alla valutazione delle conseguenze sugli altri degli atti volti al perseguimento dell’interesse individuale.

A questa coscienza non potranno sottrarsi le aziende di produzione e servizi.E’ di tutta evidenza, infatti, che l’attività d’azienda, pur facendo perno, per come 

deve essere, sull’aspetto più strettamente economico della vita aziendale e ovviamente sul profitto, non può trascurare, ma deve anzi tenere esplicitamente presente una serie di altre istanze “interne” ed “esterne”, alle quali la vita stessa dell’azienda è sensibile e che compongono, nell’assieme, la realtà in cui l’azienda vive ed opera. Di queste realtà, del resto, le aziende sono cellule economiche singole, il cui armonico comporsi tra di loro e con altre componenti non economiche,consente possibilità di vita e di successo allo stesso sistema economico cui partecipano.

Tale sistema è espressione dell’attività umana volta al miglioramento della qualitàdella vita, unitamente ad altre componenti. Il denaro vi gioca un ruolo strumentaleessenziale. Ma allorquando da mezzo di scambio diviene fine unico dell’attività, finisce col porre in dubbio la stessa legittimità delle manipolazioni umane sull’ambiente. Partendo da questa considerazione si giunge ad auspicare l’adozione di modalità di valutazione dell’attività economica che vadano oltre il solo profitto.

Anche al livello “macroeconomico” va delineandosi l’inadeguatezza delle valutazioni arcaiche legate al solo “PIL - Prodotto Interno Lordo”. Esso appare utile per funzioni di indirizzo dello sviluppo economico, soltanto laddove venga perseguita una disponibilità sempre crescente di beni e servizi, a prescindere da ogni altra istanza dell’uomo col suo ambiente sociale, culturale e naturale. 

Ma in circostanze caratterizzate da squilibri socio-economici e da degrado sociale, culturale e naturale, che sollecitano indirizzi di limitazioni nell’uso delle risorse e di attenzione alla loro più equa ripartizione, il solo PIL evidenzia tutta la sua arcaicità,non essendo in grado di assecondare un più virtuoso sviluppo.

Tornando alle modalità di valutazione dell’attività d’azienda, un primo tentativo diinnovazione è stato avviato negli anni 1960, a titolo forse un po’ provocatorio, conla proposta del “Metodo della scomposizione dei parametri”(*), ma più recentementeuna simile impostazione delle quantificazioni aziendali sembra suscitare maggior nteresse, soprattutto nei Paesi dell’Est europeo, ma anche nell’Occidente, in relazione ai condizionamenti promossi, pure a livello economico, dal rafforzarsi delle istanze ambientali. Pure a Cuba, nell’economia della pianificazione che non sembra offrire margini alle applicazioni innovative, la presentazione del suddetto modello ha suscitato interesse, sia pure al livello solo accademico. (**)

Si tratta di fermenti suscettibili di portare nel tempo a risultati concreti, in vista di un prevedibile approfondimento, non solo culturale, dei comportamenti economici e sociali e della qualità della vita, al quale tutti dobbiamo essere sensibili.

Questo stesso incontro costituisce conferma dell’interesse all’argomento trattato e, per certi aspetti, un significativo approfondimento, volto alla futura definizione di più sensibili rapporti tra impresa ed ambiente, che presupposte nuovi modelli concettuali ed etici, capaci di tradursi in futuri e più virtuosi atteggiamenti concreti.

 

(*)   Giancarlo Pallavicini, “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano”, Milano,

      Giuffré Editore, 1969; 

Enciclopedia Treccani, “Metodo della scomposizione dei parametri”,  http://www.treccani.it/enciclopedia/metodo-della-scomposizione-dei-parametri_%28altro%29/

 

(**) Giancarlo Pallavicini, "Sirven nuevos mensajes y reglas a la globalizacion", 

      in III Encuentro Internacional de econonistas, "Globalizacion y problemas del 

      desarrollo", La Habana, 2000

 

 

  • "I limiti ambientali dell'agire economico", in ONU/Unesco, Terzo Congresso Mondiale Zeri, Jakarta, 1997, relazione presentata da Giancarlo Pallavicini e anticipata in "Il Suono e la Parola", pubblicato dal Rotary Club Milano San Siro, 1996, col titolo "Economia e tutela dell'ambiente".

 

 

(INSERIRE BOCCONI_CREA E REGIONE LOMBARDIA)

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